preparazione invalsi 3/04/2019

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1.

MULTIPLE CHOICE QUESTION

1 min • 1 pt

I piccoli maestriIn tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, nascondeva armi; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare. O Dio, ce n'era qualcuno che diceva: "Io veramente vorrei vedere l'ordine scritto del Re"; ma c'era anche un sacco di brava gente.

C'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l'avevano contro la guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l'aveva voluta cominciare, e poi l'aveva grottescamente perduta per forfè.

Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c'era un po' di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po' di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po' di patriottismo popolare, e una bella dose dell'eterno particulare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. La frase più comune era "salvare il paese" (ossia soprattutto le case del centro, il ponte sul torrente, le cabine, anzi le gabìne dell'elettricità) dalle presumibili vendette dei tedeschi in ritirata. Naturalmente c'era ancora un'aria di ritirata imminente, di fine in vista; e si parlava didarsi una mano gli uni cogli altri, tra paesani come si fa in una calamità naturale.

Ma l'anima di questi tropismi era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più; li avremmo potuto rifare noi, di sana pianta; era ora.

Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l'esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale.

Ma guarda un po', dicevamo con Lelio, vien fuori che c'è per davvero, la volontà popolare. Pensavamo a quella delle scritte murali; perché quando una cosa si vedeva scritta sui muri, segno che non esisteva; così noi prendevamo per scontato che la volontà dell'Italia non esiste. Invece ora era saltata fuori, e ci eravamo in mezzo. Veniva in mente come dovevano essersi sentiti Lenin e i suoi amici, in quelle prime settimane dopo il suo arrivo alla stazione di Finlandia, e rimpiangevamo la nostra pochezza.

Viaggiavamo in bicicletta da un paese all'altro a stabilire "contatti", a censire, a investire, a parlare col prete, col maestro elementare, con gli studenti, coi gruppi dei reduci. Si entrava nelle case, nelle canoniche, nelle osterie, nelle botteghe; si vedeva come vive la gente, in che modo imposta le sue faccende. Io sono un paesano, ma sul mio paese non avevo mai riflettuto, ero troppo occupato a viverci; non era una struttura sociologica, per me, ma una categoria a priori dell'intuire, parole un po' grosse ma vere. Qui in questi altri paesi e paesetti, ritrovavo schemi analoghi di occupazioni, di condotta, di idee, e ora li vedevo fuori di me, e li capivo. Paesi e paesetti erano ancora rimescolati per effetto della guerra; c'era un'aria provvisoria, incerta, nelle case nelle piazzette nei campi. La gente non sapeva ancora bene come assestarsi di nuovo in una vita normale: le famiglie erano ancora centrate sulle donne, oltre che sui vecchi e sui bambini; gli uomini giovani, tornati appena, parevano un po' in prestito.


(Luigi Meneghello, 1964, I piccoli maestri, Milano: Rizzoli, 2016, pp. 33-34)


In quale provincia si svolgono i fatti?

Nelle campagne venete

Nel paese di Luigi e di Lelio

In luoghi non precisati della provincia italiana

In provincia di Vicenza

2.

MULTIPLE CHOICE QUESTION

5 mins • 1 pt

I piccoli maestriIn tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, nascondeva armi; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare. O Dio, ce n'era qualcuno che diceva: "Io veramente vorrei vedere l'ordine scritto del Re"; ma c'era anche un sacco di brava gente.

C'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l'avevano contro la guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l'aveva voluta cominciare, e poi l'aveva grottescamente perduta per forfè.

Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c'era un po' di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po' di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po' di patriottismo popolare, e una bella dose dell'eterno particulare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. La frase più comune era "salvare il paese" (ossia soprattutto le case del centro, il ponte sul torrente, le cabine, anzi le gabìne dell'elettricità) dalle presumibili vendette dei tedeschi in ritirata. Naturalmente c'era ancora un'aria di ritirata imminente, di fine in vista; e si parlava didarsi una mano gli uni cogli altri, tra paesani come si fa in una calamità naturale.

Ma l'anima di questi tropismi era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più; li avremmo potuto rifare noi, di sana pianta; era ora.

Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l'esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale.

Ma guarda un po', dicevamo con Lelio, vien fuori che c'è per davvero, la volontà popolare. Pensavamo a quella delle scritte murali; perché quando una cosa si vedeva scritta sui muri, segno che non esisteva; così noi prendevamo per scontato che la volontà dell'Italia non esiste. Invece ora era saltata fuori, e ci eravamo in mezzo. Veniva in mente come dovevano essersi sentiti Lenin e i suoi amici, in quelle prime settimane dopo il suo arrivo alla stazione di Finlandia, e rimpiangevamo la nostra pochezza.

Viaggiavamo in bicicletta da un paese all'altro a stabilire "contatti", a censire, a investire, a parlare col prete, col maestro elementare, con gli studenti, coi gruppi dei reduci. Si entrava nelle case, nelle canoniche, nelle osterie, nelle botteghe; si vedeva come vive la gente, in che modo imposta le sue faccende. Io sono un paesano, ma sul mio paese non avevo mai riflettuto, ero troppo occupato a viverci; non era una struttura sociologica, per me, ma una categoria a priori dell'intuire, parole un po' grosse ma vere. Qui in questi altri paesi e paesetti, ritrovavo schemi analoghi di occupazioni, di condotta, di idee, e ora li vedevo fuori di me, e li capivo. Paesi e paesetti erano ancora rimescolati per effetto della guerra; c'era un'aria provvisoria, incerta, nelle case nelle piazzette nei campi. La gente non sapeva ancora bene come assestarsi di nuovo in una vita normale: le famiglie erano ancora centrate sulle donne, oltre che sui vecchi e sui bambini; gli uomini giovani, tornati appena, parevano un po' in prestito.


(Luigi Meneghello, 1964, I piccoli maestri, Milano: Rizzoli, 2016, pp. 33-34)


Quale avvenimento storico fa da sfondo ai fatti narrati?

La rivoluzione russa

L'armistizio dell'8 settembre 1943

Il secondo dopoguerra

La fine della prima guerra mondiale

3.

MULTIPLE CHOICE QUESTION

3 mins • 1 pt

I piccoli maestriIn tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, nascondeva armi; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare. O Dio, ce n'era qualcuno che diceva: "Io veramente vorrei vedere l'ordine scritto del Re"; ma c'era anche un sacco di brava gente.

C'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l'avevano contro la guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l'aveva voluta cominciare, e poi l'aveva grottescamente perduta per forfè.

Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c'era un po' di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po' di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po' di patriottismo popolare, e una bella dose dell'eterno particulare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. La frase più comune era "salvare il paese" (ossia soprattutto le case del centro, il ponte sul torrente, le cabine, anzi le gabìne dell'elettricità) dalle presumibili vendette dei tedeschi in ritirata. Naturalmente c'era ancora un'aria di ritirata imminente, di fine in vista; e si parlava didarsi una mano gli uni cogli altri, tra paesani come si fa in una calamità naturale.

Ma l'anima di questi tropismi era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più; li avremmo potuto rifare noi, di sana pianta; era ora.

Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l'esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale.

Ma guarda un po', dicevamo con Lelio, vien fuori che c'è per davvero, la volontà popolare. Pensavamo a quella delle scritte murali; perché quando una cosa si vedeva scritta sui muri, segno che non esisteva; così noi prendevamo per scontato che la volontà dell'Italia non esiste. Invece ora era saltata fuori, e ci eravamo in mezzo. Veniva in mente come dovevano essersi sentiti Lenin e i suoi amici, in quelle prime settimane dopo il suo arrivo alla stazione di Finlandia, e rimpiangevamo la nostra pochezza.

Viaggiavamo in bicicletta da un paese all'altro a stabilire "contatti", a censire, a investire, a parlare col prete, col maestro elementare, con gli studenti, coi gruppi dei reduci. Si entrava nelle case, nelle canoniche, nelle osterie, nelle botteghe; si vedeva come vive la gente, in che modo imposta le sue faccende. Io sono un paesano, ma sul mio paese non avevo mai riflettuto, ero troppo occupato a viverci; non era una struttura sociologica, per me, ma una categoria a priori dell'intuire, parole un po' grosse ma vere. Qui in questi altri paesi e paesetti, ritrovavo schemi analoghi di occupazioni, di condotta, di idee, e ora li vedevo fuori di me, e li capivo. Paesi e paesetti erano ancora rimescolati per effetto della guerra; c'era un'aria provvisoria, incerta, nelle case nelle piazzette nei campi. La gente non sapeva ancora bene come assestarsi di nuovo in una vita normale: le famiglie erano ancora centrate sulle donne, oltre che sui vecchi e sui bambini; gli uomini giovani, tornati appena, parevano un po' in prestito.


(Luigi Meneghello, 1964, I piccoli maestri, Milano: Rizzoli, 2016, pp. 33-34)


"La gente si radunava, si contava, nascondeva armi; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare.": riconosci la funzione del punto e virgola indicando l'unica opzione errata tra le seguenti.

Separa gli elementi di un periodo

Segna una pausa forte

Separa proposizioni coordinate

Separa proposizioni indipendenti

4.

MULTIPLE CHOICE QUESTION

3 mins • 1 pt

DIFFICOLTÀ


I piccoli maestriIn tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, nascondeva armi; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare. O Dio, ce n'era qualcuno che diceva: "Io veramente vorrei vedere l'ordine scritto del Re"; ma c'era anche un sacco di brava gente.

C'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l'avevano contro la guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l'aveva voluta cominciare, e poi l'aveva grottescamente perduta per forfè.

Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c'era un po' di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po' di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po' di patriottismo popolare, e una bella dose dell'eterno particulare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. La frase più comune era "salvare il paese" (ossia soprattutto le case del centro, il ponte sul torrente, le cabine, anzi le gabìne dell'elettricità) dalle presumibili vendette dei tedeschi in ritirata. Naturalmente c'era ancora un'aria di ritirata imminente, di fine in vista; e si parlava didarsi una mano gli uni cogli altri, tra paesani come si fa in una calamità naturale.

Ma l'anima di questi tropismi era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più; li avremmo potuto rifare noi, di sana pianta; era ora.

Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l'esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale.

Ma guarda un po', dicevamo con Lelio, vien fuori che c'è per davvero, la volontà popolare. Pensavamo a quella delle scritte murali; perché quando una cosa si vedeva scritta sui muri, segno che non esisteva; così noi prendevamo per scontato che la volontà dell'Italia non esiste. Invece ora era saltata fuori, e ci eravamo in mezzo. Veniva in mente come dovevano essersi sentiti Lenin e i suoi amici, in quelle prime settimane dopo il suo arrivo alla stazione di Finlandia, e rimpiangevamo la nostra pochezza.

Viaggiavamo in bicicletta da un paese all'altro a stabilire "contatti", a censire, a investire, a parlare col prete, col maestro elementare, con gli studenti, coi gruppi dei reduci. Si entrava nelle case, nelle canoniche, nelle osterie, nelle botteghe; si vedeva come vive la gente, in che modo imposta le sue faccende. Io sono un paesano, ma sul mio paese non avevo mai riflettuto, ero troppo occupato a viverci; non era una struttura sociologica, per me, ma una categoria a priori dell'intuire, parole un po' grosse ma vere. Qui in questi altri paesi e paesetti, ritrovavo schemi analoghi di occupazioni, di condotta, di idee, e ora li vedevo fuori di me, e li capivo. Paesi e paesetti erano ancora rimescolati per effetto della guerra; c'era un'aria provvisoria, incerta, nelle case nelle piazzette nei campi. La gente non sapeva ancora bene come assestarsi di nuovo in una vita normale: le famiglie erano ancora centrate sulle donne, oltre che sui vecchi e sui bambini; gli uomini giovani, tornati appena, parevano un po' in prestito.


Scegli, tra le seguenti interpretazioni dell'affermazione "tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto" quella che ti sembra più corretta:

Tutto si era distrutto

La gente faceva "di tutte le erbe un fascio"

Il Partito fascista era caduto

La gente aveva lasciato che tutto andasse in rovina

5.

MULTIPLE CHOICE QUESTION

1 min • 1 pt

I piccoli maestriIn tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, nascondeva armi; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare. O Dio, ce n'era qualcuno che diceva: "Io veramente vorrei vedere l'ordine scritto del Re"; ma c'era anche un sacco di brava gente.

C'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l'avevano contro la guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l'aveva voluta cominciare, e poi l'aveva grottescamente perduta per forfè.

Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c'era un po' di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po' di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po' di patriottismo popolare, e una bella dose dell'eterno particulare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. La frase più comune era "salvare il paese" (ossia soprattutto le case del centro, il ponte sul torrente, le cabine, anzi le gabìne dell'elettricità) dalle presumibili vendette dei tedeschi in ritirata. Naturalmente c'era ancora un'aria di ritirata imminente, di fine in vista; e si parlava didarsi una mano gli uni cogli altri, tra paesani come si fa in una calamità naturale.

Ma l'anima di questi tropismi era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più; li avremmo potuto rifare noi, di sana pianta; era ora.

Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l'esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale.

Ma guarda un po', dicevamo con Lelio, vien fuori che c'è per davvero, la volontà popolare. Pensavamo a quella delle scritte murali; perché quando una cosa si vedeva scritta sui muri, segno che non esisteva; così noi prendevamo per scontato che la volontà dell'Italia non esiste. Invece ora era saltata fuori, e ci eravamo in mezzo. Veniva in mente come dovevano essersi sentiti Lenin e i suoi amici, in quelle prime settimane dopo il suo arrivo alla stazione di Finlandia, e rimpiangevamo la nostra pochezza.

Viaggiavamo in bicicletta da un paese all'altro a stabilire "contatti", a censire, a investire, a parlare col prete, col maestro elementare, con gli studenti, coi gruppi dei reduci. Si entrava nelle case, nelle canoniche, nelle osterie, nelle botteghe; si vedeva come vive la gente, in che modo imposta le sue faccende. Io sono un paesano, ma sul mio paese non avevo mai riflettuto, ero troppo occupato a viverci; non era una struttura sociologica, per me, ma una categoria a priori dell'intuire, parole un po' grosse ma vere. Qui in questi altri paesi e paesetti, ritrovavo schemi analoghi di occupazioni, di condotta, di idee, e ora li vedevo fuori di me, e li capivo. Paesi e paesetti erano ancora rimescolati per effetto della guerra; c'era un'aria provvisoria, incerta, nelle case nelle piazzette nei campi. La gente non sapeva ancora bene come assestarsi di nuovo in una vita normale: le famiglie erano ancora centrate sulle donne, oltre che sui vecchi e sui bambini; gli uomini giovani, tornati appena, parevano un po' in prestito.


Stabilisci quale registro stilistico caratterizza le espressioni riportate (evidenziate nel testo).

un sacco di brava gente

Elevato

Familiare

6.

MULTIPLE CHOICE QUESTION

1 min • 1 pt

I piccoli maestriIn tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, nascondeva armi; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare. O Dio, ce n'era qualcuno che diceva: "Io veramente vorrei vedere l'ordine scritto del Re"; ma c'era anche un sacco di brava gente.

C'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l'avevano contro la guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l'aveva voluta cominciare, e poi l'aveva grottescamente perduta per forfè.

Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c'era un po' di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po' di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po' di patriottismo popolare, e una bella dose dell'eterno particulare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. La frase più comune era "salvare il paese" (ossia soprattutto le case del centro, il ponte sul torrente, le cabine, anzi le gabìne dell'elettricità) dalle presumibili vendette dei tedeschi in ritirata. Naturalmente c'era ancora un'aria di ritirata imminente, di fine in vista; e si parlava didarsi una mano gli uni cogli altri, tra paesani come si fa in una calamità naturale.

Ma l'anima di questi tropismi era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più; li avremmo potuto rifare noi, di sana pianta; era ora.

Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l'esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale.

Ma guarda un po', dicevamo con Lelio, vien fuori che c'è per davvero, la volontà popolare. Pensavamo a quella delle scritte murali; perché quando una cosa si vedeva scritta sui muri, segno che non esisteva; così noi prendevamo per scontato che la volontà dell'Italia non esiste. Invece ora era saltata fuori, e ci eravamo in mezzo. Veniva in mente come dovevano essersi sentiti Lenin e i suoi amici, in quelle prime settimane dopo il suo arrivo alla stazione di Finlandia, e rimpiangevamo la nostra pochezza.

Viaggiavamo in bicicletta da un paese all'altro a stabilire "contatti", a censire, a investire, a parlare col prete, col maestro elementare, con gli studenti, coi gruppi dei reduci. Si entrava nelle case, nelle canoniche, nelle osterie, nelle botteghe; si vedeva come vive la gente, in che modo imposta le sue faccende. Io sono un paesano, ma sul mio paese non avevo mai riflettuto, ero troppo occupato a viverci; non era una struttura sociologica, per me, ma una categoria a priori dell'intuire, parole un po' grosse ma vere. Qui in questi altri paesi e paesetti, ritrovavo schemi analoghi di occupazioni, di condotta, di idee, e ora li vedevo fuori di me, e li capivo. Paesi e paesetti erano ancora rimescolati per effetto della guerra; c'era un'aria provvisoria, incerta, nelle case nelle piazzette nei campi. La gente non sapeva ancora bene come assestarsi di nuovo in una vita normale: le famiglie erano ancora centrate sulle donne, oltre che sui vecchi e sui bambini; gli uomini giovani, tornati appena, parevano un po' in prestito.


Stabilisci quale registro stilistico caratterizza le espressioni riportate (evidenziate nel testo).

un sacco di brava gente

Elevato

Familiare

7.

MULTIPLE CHOICE QUESTION

3 mins • 1 pt

I piccoli maestriIn tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, nascondeva armi; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare. O Dio, ce n'era qualcuno che diceva: "Io veramente vorrei vedere l'ordine scritto del Re"; ma c'era anche un sacco di brava gente.

C'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l'avevano contro la guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l'aveva voluta cominciare, e poi l'aveva grottescamente perduta per forfè.

Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c'era un po' di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po' di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po' di patriottismo popolare, e una bella dose dell'eterno particulare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. La frase più comune era "salvare il paese" (ossia soprattutto le case del centro, il ponte sul torrente, le cabine, anzi le gabìne dell'elettricità) dalle presumibili vendette dei tedeschi in ritirata. Naturalmente c'era ancora un'aria di ritirata imminente, di fine in vista; e si parlava didarsi una mano gli uni cogli altri, tra paesani come si fa in una calamità naturale.

Ma l'anima di questi tropismi era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più; li avremmo potuto rifare noi, di sana pianta; era ora.

Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l'esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale.

Ma guarda un po', dicevamo con Lelio, vien fuori che c'è per davvero, la volontà popolare. Pensavamo a quella delle scritte murali; perché quando una cosa si vedeva scritta sui muri, segno che non esisteva; così noi prendevamo per scontato che la volontà dell'Italia non esiste. Invece ora era saltata fuori, e ci eravamo in mezzo. Veniva in mente come dovevano essersi sentiti Lenin e i suoi amici, in quelle prime settimane dopo il suo arrivo alla stazione di Finlandia, e rimpiangevamo la nostra pochezza.

Viaggiavamo in bicicletta da un paese all'altro a stabilire "contatti", a censire, a investire, a parlare col prete, col maestro elementare, con gli studenti, coi gruppi dei reduci. Si entrava nelle case, nelle canoniche, nelle osterie, nelle botteghe; si vedeva come vive la gente, in che modo imposta le sue faccende. Io sono un paesano, ma sul mio paese non avevo mai riflettuto, ero troppo occupato a viverci; non era una struttura sociologica, per me, ma una categoria a priori dell'intuire, parole un po' grosse ma vere. Qui in questi altri paesi e paesetti, ritrovavo schemi analoghi di occupazioni, di condotta, di idee, e ora li vedevo fuori di me, e li capivo. Paesi e paesetti erano ancora rimescolati per effetto della guerra; c'era un'aria provvisoria, incerta, nelle case nelle piazzette nei campi. La gente non sapeva ancora bene come assestarsi di nuovo in una vita normale: le famiglie erano ancora centrate sulle donne, oltre che sui vecchi e sui bambini; gli uomini giovani, tornati appena, parevano un po' in prestito.


Con quale atteggiamento ti sembra che il narratore ripercorra gli eventi?

Freddo e a tratti sprezzante

Nostalgico

Indifferente e distaccato

Partecipe, ma a tratti affettuosamente ironico

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